Ho pensato a voi

Ho pensato a tutti voi, piccoli miei, che in questi giorni siete maturi.

Ho pensato a voi, che avete condiviso con me tre anni difficilissimi, ma meravigliosi.

Ho pensato alle scelte sbagliate, ma anche al fatto che se non avessi fatto quelle scelte sbagliate voi non avreste mai incrociato la mia strada.

E allora.. va bene così.

Ho pensato a te, che mi hai voluta vicina in un momento così speciale, il momento della tua prova, un moderno rito di passaggio per un giovane cavaliere dal cuore antico. Il tuo abbraccio, piccolo grande uomo, l’abbraccio nel quale si è sciolta ogni emozione, ogni ansia, ogni agitazione..quell’abbraccio di bimbo che diventa adulto mi rimarrà nel cuore per sempre.

E’ strano

..non trovi, che la qualità del cibo debba essere inversamente proporzionale alla quantità di luce. C’è da chiedersi a quali vette culinarie i cuochi potrebbero arrivare se li si confinasse in un’oscurità perpetua.

Douglas Adams, L’investigatore olistico Dirk Gently

Phryne annuì..

..anche se non aveva idea a cosa alludesse sua nonna. “Può essere, ma non è detto che ci piaccia” replicò.

“E non dovremmo essere costretti ad accettarlo, e in genere non lo accettiamo. Comprendiamo che tutte le probabilità sono contro di noi, ma continuiamo a lottare per qualcosa di più. Ogni volta compiamo il massimo sforzo per ottenere, di tanto in tanto, esattamente quello che desideriamo”.

Terry Brooks, L’ultimo cavaliere

La mossa dell’alfiere

la mossa dell'alfiere

Dino, apprendista di Leonardo da Vinci presso il castello degli Sforza a Milano, si trova suo malgrado coinvolto in un omicidio. Il Maestro, incaricato da Ludovico il Moro di scoprire l’assassino quanto prima, lo rende partecipe delle indagini, stimolando le sue capacità d’osservazione e ragionamento, ma anche la forza d’animo e il coraggio.

Come ogni eroe ha il suo discepolo, così anche Leonardo, detective per l’occasione, in questo romanzo ha un assistente, il vero protagonista della vicenda. Dino apprende, suggerisce in modo arguto, ma nasconde anche un segreto, ignoto (ma anche no) al suo stesso mentore.

La vicenda si sviluppa come un classico giallo deduttivo, senza tralasciare alcune situazioni d’azione e soffermandosi lievemente sul periodo storico e sulle abitudini della bottega d’arte: sullo sfondo (forse un po’ troppo in fondo…)  la Milano rinascimentale di Ludovico il Moro e il laboratorio di Leonardo.

La narrazione è scorrevole e veloce, l’intreccio ben costruito e il racconto piacevole, anche se talmente lineare da far desiderare qualche colpo di scena in più. I personaggi principali sono caratterizzati in maniera interessante, anche se Leonardo in alcuni momenti sembra un po’ stereotipato.

Nel complesso una lettura godibile e senza pretese.

Diane A.S. Stuckart, “La mossa dell’alfiere. Leonardo da Vinci indaga”

Fuori metafora

La metropolitana è affollatissima. Sono quasi alla fermata della stazione, ma ho i minuti contati.
Ho viaggiato in bilico tra i passeggeri, quasi soffocata tra loro. Mi sono avvicinata all’uscita a spintoni, il brevissimo percorso caotico, la ressa per uscire dal vagone. La corsa. Quasi sono all’uscita. Naturalmente quella più vicina è chiusa. Ironia della sorte. Mi dirigo affannosamente verso l’unica che mi permette di accedere direttamente al piazzale: naturalmente è la più lontana. Naturalmente la scala mobile, speranza di guadagnare qualche secondo, è fuori servizio. Mi precipito su per i gradini, prendo una boccata d’aria fresca, inciampo maldestramente in me stessa mentre cerco di aprire il misero ombrellino sepolto in fondo alla borsa. A una delle borse che mi sto trascinando dietro. La stazione, vista tra la pioggia scrosciante, sembra un miraggio lontanissimo.
Il mio cuore mi dice che ce la posso fare, la mia testa mi dice che se ce la metto tutta – spazio fratto tempo uguale velocità – ce la posso ancora fare. Le borse mi pesano da ogni parte, sono zavorre che scivolano giù dalle spalle. Le recupero con una mano, mentre con l’altra sono impegnata a lottare con l’inutile ombrellino in balia del vento. Corro. O cerco di farlo.
Forse sono arrivata in tempo. Sul tabellone della stazione il treno non è ancora stato cancellato, l’orologio dice che sono in anticipo di un minuto. Quasi. Mi fermo un momento per prendere fiato: sono in affanno e l’aria fredda mi infiamma i polmoni. Il respiro mi si ferma in gola: le dannatissime lucine intermittenti segnalano che il treno sta per partire. Binario 16. Naturalmente. Non poteva essere il binario più vicino vicino, oggi che non sono in anticipo come al solito. Anni di anticipi e di treni in ritardo. Un giorno di ritardo e un treno puntuale. Ironia della sorte. Ricomincia la corsa. La testa martella: “Ce la faccio, ce la faccio, ce la faccio…”. “Corri, corri, corri…”. Ombrello perso, borse a penzoloni, spalle e dita doloranti. Vedo le scale. Le scale della stazione, che, notoriamente, sono più faticose da salire di tutte le scale del mondo: 20 gradini per non aver fatto nemmeno un giorno di palestra, 20 gradini per un gigante in sovrappeso, 20 gradini per scalare l’Everest. Ma la tenacia premia: il treno è ancora lì. L’impegno vince, la costanza trionfa, la fatica viene ricompensata. L’ultimo gradino. E un impercettibile movimento. Le porte si chiudono. Esattamente nello stesso momento in cui il mio piede arriva sul binario. Le porte si sono chiuse per non riaprirsi.
Il treno parte. Lentamente. Mi prende in giro. Con lo stesso sorriso ironico della sorte. Si fa guardare bene mentre se ne va. Dopo di lui non ci sono più treni. Non ci sono coincidenze. Non ci sono mezzi. Solo il buio della notte che cala lentamente. Solo il freddo. Solo la pioggia. Fuori. Dentro una voragine di vuoto.
E ho anche perso l’ombrello.

il buio

Perché le cose non vanno mai come ti aspetti.
Perché nonostante tu abbia raggiunto gli obiettivi che ti sei posto, in fondo sembra sempre di non aver mai concluso niente.
Perché le persone, tutte, alla fine deludono sempre le tue attese.
Perché la gente pensa che sia sufficiente chiedere scusa… ma nemmeno un piatto rotto si riaggiusta, anche se gli si chiede scusa.
Perché ti senti sempre un chilometro indentro, tre gradini sotto.
Alla fine, da sola.

La parte che mi manca

C’è stato un momento nella mia vita in cui sono stata coraggiosa. Mi ricordo bene di quella ragazza senza paure. Ero impavida, alzavo la voce, non sopportavo di stare zitta e difendevo con tutta me stessa le mie idee.
Ero intransigente, avrei messo la mia faccia davanti a tutto e tutti, avrei gridato ai quattro venti la mia opinione, le mie emozioni, i miei sentimenti.
Il mio momento della contestazione.
Qualche anno di gloriosa, dissennata, impulsiva gioventù.
Ero libera, forte, instancabile, senza freni.
Il mondo mi amava e io amavo il mondo, incondizionatamente.
Forse, per questo oggi mi sento chiusa in gabbia.

Il bicchiere mezzo pieno

Ho un cassetto pieno di sogni che rimarrà chiuso per sempre: è pieno di ragnatele avvolte attorno ad antiche aspirazioni, speranze deluse, aspettative infrante, inutili consapevolezze.
Ho un cassetto dal quale ho estratto un sogno: ho sudato, ho faticato, ho creduto, ho gioito e l’ho concretizzato. Poi mi sono resa conto che quel sogno, trasformato in realtà, diventava giorno dopo giorno un incubo, lontano anni luce da ogni idea che avevo di lui. Ho riaperto il cassetto e abbandonato lì i pezzi di quel che ne restava.
Ho un cassetto vuoto, perché l’amore della mia vita vive accanto a me. Lui ha raccolto le chiavi degli altri cassetti, lui custodisce gelosamente la prima e mi ha aiutato a gettare l’altra, liberandomi dei ripensamenti e dei sensi di colpa. Lui è così presente che la solitudine non mi spaventa più, lui è così affettuoso che non ho bisogno di altre carezze, lui è così paziente che posso essere completamente me stessa senza averne paura.
Lui mi ha appena regalato una nuova chiave per un nuovo cassetto.
Lui è la parte piena del mio bicchiere.

Come l’aratro

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.
 
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:
 
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese.
 
Lavandare, Giovanni Pascoli

dell’amore, della morte

Tu, l’uomo più energico che io abbia mai conosciuto, eri spezzato.
Per la prima volta ti vedevo fragile e cercavo, io, di prendermi cura di te.
Mi hai guardato intensamente, dolcemente e mi hai sussurrato: “Se hai bisogno, vieni da me”.
Non sento più la tua voce, e non ho ancora trovato qualcuno che si prenda cura di me come hai fatto tu.

Una persona buona

Ho sempre coltivato questo desiderio dentro il cuore: se qualcuno chiedesse a chi mi conosce di definirmi con un aggettivo, vorrei che la risposta fosse: “E’ una persona buona”.
Quella a cui aspiro è la bontà pura, quella imbarazzante, disarmante.
Amo il paragone, abusato ma sempre azzeccato, “buono come il pane”. Ecco, vorrei essere così: semplice, sobria, quasi scontata, ma indispensabile.

Otto ottobre ore otto

Questa sera, dalle 20, il cielo offrirà uno spettacolo tanto raro quanto splendente: là dove il cielo sarà terso si potrà osservare una pioggia di stelle, le Draconidi, chiamate così perchè il punto di partenza delle scie sembra collocato nella testa della costellazione del Drago, una delle più grandi della volta celeste.
 
Il Draco era già stata individuata da Tolomeo, un astronomo ellenista vissuto in Grecia tra il 100 ed il 175, ed è compresa nel novero delle costellazioni moderne.
Come gran parte delle costellazioni, anche questa è legata ad un mito greco antico: Dragone era il custode del giardino delle Esperidi, ninfe che vivevano in un meraviglioso giardino oltre i confini delle terre abitate, col compito di custodire un albero che produceva mele d’oro, donato per le loro nozze a Zeus ed Era dalla madre del primo. Per evitare che ninfe fossero tentate dal mangiare loro stesse i pomi d’doro, Era aveva posto a guardia dell’albero Ladone, un drago dalle cento teste, avvolto al tronco. Il mito racconta che Ercole, in una delle sue dodici fatiche, dovesse rubare i frutti dell’albero: uccise così  Ladone, che però Era trasmutò in una costellazione perchè il ricordo del suo fedele operato rimanesse eterno.
Il gruppo di testa della costellazione, da cui partirà la pioggia di stelle cadenti prevista per questa sera, è formato da 4 stelle: Rabastan, Eltanin, Ny e Xi.

De senectute – III

Sed de ceteris et diximus multa et saepe dicemus; hunc librum ad te de senectute misimus. Omnem autem sermonem tribuimus non Tithono, ut Aristo Cius, (parum enim esset auctoritatis in fabula), sed M. Catoni seni, quo maiorem auctoritatem haberet oratio; apud quem Laelium et Scipionem facimus admirantis quod is tam facile senectutem ferat, eisque eum respondentem. Qui si eruditius videbitur disputare quam consuevit ipse in suis libris, attribuito litteris Graecis, quarum constat eum perstudiosum fuisse in senectute. Sed quid opus est plura? Iam enim ipsius Catonis sermo explicabit nostram omnem de senectute sententiam.

 
Ma abbiamo detto, e spesso diremo, molte cose riguardo ad altri argomenti; ti abbiamo inviato questo libro sulla vecchiaia. Ma abbiamo attribuito tutto il discorso non a Titono, come Aristo di Chio (infatti ci sarebbe poca autorità in una mito), ma a M. Catone il vecchio, grazie al quale il discorso avrebbe maggiore autorità; vicino a lui abbiamo rappresentato Lelio e Scipione, ammirati dal fatto che lui sopporti la vecchiaia così facilmente, e (abbiamo rappresentato) lui che risponde a loro. Se lui sembrerà discutere da erudito, come è solito fare nei suoi libri, lo attribuirai alla letteratura greca, della quale è chiaro che sia stato un grande cultore in vecchiaia. Ma cosa è necessario (dire) di più? Infatti il discorso di Catone stesso illustrerà la nostra opinione completa sulla vecchiaia.

Sonetto LXXV

Come il cibo alla vita sei per me,
come alla terra acquazzoni di maggio,
e per tuo amor così mi tormento
come per l’oro sua pena l’avaro
che del possesso ora esulta, ma già
teme che i suoi tesori involi il tempo:
e ora bramo di starti unico accanto
ora che il mondo ammiri il mio piacere,
sazio talor soltanto del vederti,
poi subito affamato di uno sguardo;
e non v’è gioia ch’io tenga o insegua,
se da te non l’attendo o non m’avanza.
Così divoro e languo ognor, vorace
tutto afferrando o morendo di fame.

 
William Shakespeare